Così fan tutte
ossia La scuola degli amanti Dramma giocoso in due atti KV 588 di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart 1756-1791
Prima rappresentazione: Vienna, Burgtheater, 26 gennaio 1790

Personaggi
Vocalità
Despina
Soprano
Don Alfonso
Basso
Dorabella
Soprano
Ferrando
Tenore
Fiordiligi
Soprano
Guglielmo
Basso
Note
Ultima delle opere su libretto di Lorenzo Da Ponte, dopoLe nozze di Figaro(1786) eDon Giovanni(1787),Così fan tutteè anche l’ultima opera buffa mozartiana: seguiranno ilSingspiel Die Zauberflötee l’opera seriaLa clemenza di Tito. Fu commissionata dall’imperatore Giuseppe II in seguito al successo delle riprese viennesi diDon Giovanni(maggio 1788) e delleNozze di Figaro(agosto-novembre 1789). Alla ‘prima’ parteciparono Adriana Ferrarese del Bene, Louise Villeneuve, Vincenzo Calvesi, Dorotea Bussani (il primo Cherubino nelleNozze di Figaro), Francesco Benucci (il primo Figaro) e Francesco Bussani (il primo Bartolo). Nel libretto sono fuse varie fonti: la vicenda sembra originale, ma un fitto intreccio di citazioni chiama in causa Ovidio, Boccaccio, Ariosto, Marivaux e Goldoni. Riguardo all’Orlando furioso, pensiamo alle novelle misogine del nappo (canti XLII-XLIII) e di Astolfo e Iocondo (XXVII-XXVIII); i nomi dei personaggi derivano dal poema: Despina da Fiordispina, Dorabella da una crasi fra Doralice e Isabella, Fiordiligi dalla sposa fedele per antonomasia. I libretti goldoniani offrono numerosi spunti, entrati nella tradizione del repertorio buffo: ad esempio, neLe pescatricidue pescatori si mascherano «con baffi, e vestiti da Cavalieri» per mettere alla prova le amanti.

Nell’ouverture, dopo due frasi dell’oboe, l’orchestra cadenza per accordi, la prima voltapiano(cadenza d’inganno), la secondaforte(cadenza perfetta); è il motto dell’opera, poiché nel recitativo accompagnato che precede il finale i personaggi maschili, sopra lo stesso giro cadenzante, canteranno: «così fan tutte». La frase di recitativo, il titolo e il motto che fa capolino nell’ouverture sono i primi richiami interni in un’opera che ne è ricchissima. «Così fan tutte le belle/ non c’è alcuna novità», commentava Don Basilio nel terzetto del primo atto delleNozze di Figaro; una citazione della sua cantilena si trova, accelerata, nel primo tema dell’episodio centrale dell’ouverture, il Presto in forma-sonata, composto da microsequenze che si ripetono geometricamente: un tappeto di figure a note ribattute, sempre agli archi; una fanfaretta a piena orchestra; un primo tema scorrevole, in crome, le cui semifrasi si rincorrono fra vari gruppi di strumenti, in modo da esaurire le possibilità di combinazione; un secondo più scuro e avvolto su se stesso, sempre in una successione di crome, ma affidata di volta in volta a un solo gruppo timbrico. Dopo la ripresa abbreviata, ritorna il motto. In una bottega di caffè, a Napoli, siedono due ufficiali e un vecchio filosofo, Don Alfonso. «La mia Dorabella/ capace non è» di essere infedele, esclama Ferrando, come a proseguire un discorso già iniziato; e con lui Guglielmo, l’altro ufficiale: «la mia Fiordiligi/ tradirmi non sa». Don Alfonso, che ha provocato la disputa sostenendo il contrario, cerca di farsi indietro, ma i due intendono sfidarlo a duello, per difendere l’onore delle future spose. Tre brevi terzetti ritmano la scena, fra di essi incalza il recitativo semplice. «È la fede delle femmine/ come l’araba fenice:/ che vi sia, ciascun lo dice;/ dove sia, nessun lo sa»: così inizia il secondo terzetto, e a parlare è naturalmente Don Alfonso, che calma i bollori dei giovani citando la quartina di Metastasio (il quale, meno maschilista, diceva «la fede degli amanti»), accolta nella tradizione comica attraverso Goldoni (La scuola modernaI,8). Il filosofo scommette cento zecchini, per provare ai due amici che le fidanzate non sono diverse dalle altre donne; per un giorno, Ferrando e Guglielmo dovranno attenersi ai suoi ordini. «E de’ cento zecchini, che faremo?» si chiede Guglielmo, sicuro di vincere. «Una bella serenata/ far io voglio alla mia dea», canta a melodia spiegata Ferrando, avviando l’ultimo terzetto del prologo. Nel giardino della casa sul golfo, le sorelle Fiordiligi e Dorabella contemplano sognanti i ritratti dei fidanzati e intrecciano il primo dei loro duetti (“Ah guarda sorella”). A un languido Andante segue un Allegro in cui clarinetti e fagotti si alternano o raddoppiano le voci, le quali procedono spesso per terze e seste parallele o ad imitazione incrociata (una voce fissa su una nota e l’altra che arpeggia, e viceversa): sono stilemi ricorrenti nella partitura; anche nei concertati le sorelle canteranno così, inseparabili. Don Alfonso reca una notizia terribile, ma prima crea il panico cantando un frammento di aria concisa e agitata, poche battute ansimanti: il suo unico numero da solista (“Vorrei dir, e cor non ho”). Spiega che i fidanzati sono richiamati al fronte e devono partire all’istante. Arrivano Ferrando e Guglielmo, compunti e tristissimi: disperazione delle sorelle (quintetto “Sento, o Dio, che questo piede”), confortate dagli amanti (duettino “Al fato dàn legge”), coro di soldati che annuncia il passaggio della barca del reggimento (“Bella vita militar!”), promessa di scriversi spesso (altro quintetto). All’inizio dell’ultimo numero (“Di scrivermi ogni giorno”) le voci entrano una per volta, sillabando; ogni nota è seguita da una pausa, secondo una direzione precisa, dalla prima voce (Fiordiligi) all’ultima (Don Alfonso): la prima rimane inchiodata sulla stessa nota, anche gli altri non riescono ad articolare un’intera frase; solo Don Alfonso ripete fra sé, cadenzando compiutamente, «Io crepo, se non rido!». Poi una lunga, commossa melodia passa fra le varie voci, mentre in orchestra spiccano le viole ad avvolgere e unificare la compagine vocale e strumentale. I soldati si allontanano e «le amanti restano immobili sulla sponda del mare». “Soave sia il vento”, si augurano nel terzetto seguente: i violini creano un tessuto di semicrome, su cui si distende la melodia; nella prima parte le voci procedono omoritmicamente, unite come in un corale, poi si sciolgono indipendenti in alcune battute polifoniche e, nella coda, si fermano per due volte su un accordo interrogativo, amplificato dai fiati, che getta un’ombra sulla leggerezza sognante di quanto si è ascoltato. Don Alfonso si compiace per aver recitato bene; le frasi che i soldati scambiavano a mezza voce con l’amico ci avevano insospettito, ma adesso siamo sicuri: la partenza è una farsa. Non conosciamo ancora il piano di Don Alfonso, che declama una terzina ripresa da Sannazaro: «Nel mare solca e nell’arena semina/ e il vago vento spera in rete accogliere/ chi fonda sue speranze in cor di femina». Alla presenza della cameriera Despina, Dorabella intona un recitativo da opera seria, seguito da un’aria drammatica e concitata, “Smanie implacabili”, con accompagnamento spiritato di violini e fiati (fagotti, corni, clarinetti) a note tenute, come nelle opere serie quando si parla di aldilà (e infatti sono citate le Eumenidi, nel testo ricco di versi sdruccioli tradizionalmente ‘infernali’). Informata dell’accaduto, Despina espone le proprie idee circa la fedeltà maschile ed esorta Fiordiligi e Dorabella a «far all’amor come assassine»: i fidanzati al fronte faranno altrettanto (aria “In uomini, in soldati”). Don Alfonso cerca l’aiuto di Despina, promettendole venti scudi se insieme riusciranno a far entrare nelle grazie delle sorelle due nuovi pretendenti. Travestiti da ufficiali albanesi, si avanzano Ferrando e Guglielmo, e Despina non li riconosce, ridendo poiché «hanno un muso fuor dell’uso,/ vero antidoto d’amor». Irrompono le padrone, furenti per la presenza degli sconosciuti; i finti albanesi si dichiarano spasimanti delle sorelle, che esplodono in una cascata di irati vocalizzi (sestetto “Alla bella Despinetta”). Don Alfonso presenta gli ufficiali come suoi cari amici; alle loro rinnovate e caricaturali offerte d’amore, Fiordiligi risponde – anche a nome della sorella – in un vigoroso recitativo: esse serberanno fedeltà agli amanti, fino alla morte. A questo punto è naturale che ella concluda la dichiarazione con un’aria seria, ‘di paragone’ (“Come scoglio immoto resta”), lunga e virtuosistica, nella quale la voce procede per grandi intervalli (alla fine della prima frase copre oltre due ottave di estensione, in due sole battute, sulle parole «e la tempesta»); dopo la frase in Andante maestoso, l’aria si compone di un Allegro e di una seconda sezione più mossa. Guglielmo replica con un’arietta buffa (“Non siate ritrosi”) in cui implora le sorelle, assicurando: «siam forti e ben fatti,/ siam due cari matti» e vantando sguaiatamente la propria virilità («e questi mustacchi/ chiamare si possono/ trionfi degli uomini,/ pennacchi d’amor»). Fiordiligi e Dorabella si ritirano senza parole; i due pretendenti scoppiano a ridere, mentre Don Alfonso li esorta a tacere, in un terzetto veloce e come in punta di piedi (“E voi ridete?”). Ferrando, innamorato dell’amore, invece di preoccuparsi come Guglielmo per aver saltato il pranzo, pensa che a fine giornata sarà nutrito dall’«aura» del suo tesoro: Mozart sorvola sul testo grottesco e disegna una melodia distesa, un momento di pausa nella spietata geometria drammaturgica dell’opera (“Un’aura amorosa”). In giardino, Fiordiligi e Dorabella intonano un duettino di sconforto (“Ah, che tutta in un momento”), ricamato spiritosamente dall’eco di flauti e fagotti: è l’introduzione al finale d’atto. Don Alfonso insegue gli albanesi, che fingono di bere un veleno e stramazzano al suolo; l’amico va in cerca di un medico e lascia i due agonizzanti davanti alle esterrefatte sorelle, che iniziano a provare compassione. Arriva Despina travestita da medico, declamando frasi in un latino strampalato, su un tempo di pomposo minuetto. «Ah, questo medico/ vale un Perù», esclamano le sorelle e Alfonso quando Despina fa rinvenire gli albanesi, toccandoli con una calamita. Ferrando e Guglielmo rinnovano le dichiarazioni e abbracciano le donne; in una lunga sezione (andante “Dove son? che loco è questo?”) il tempo drammatico si arresta, le frasi si ripetono sospese in un meccanismo ‘a pendolo’, fra i personaggi divisi a gruppi: le sorelle, gli amanti, Despina e Don Alfonso, che guidano il gioco ed esortano le donne ad assecondare i primi desideri dei resuscitati, i quali si comportano in modo molto passionale solo perché questi sono gli «effetti ancor del tosco». Quando i due pretendono un bacio, Fiordiligi e Dorabella si infiammano indignate e rifiutano, dichiarando: «Disperati, attossicati,/ ite al diavol quanti siete!».

Le ritroviamo meglio disposte nel secondo atto, quando nella loro camera vengono convinte da Despina (aria “Una donna a quindici anni”) e decidono di «divertirsi un poco, e non morire/ dalla malinconia», senza mancare di fede agli amanti, s’intende. Giocheranno, nessuno saprà niente, la gente penserà che gli albanesi che girano per casa siano spasimanti della cameriera. Resta solo da scegliere (duetto “Prenderò quel brunettino”): Dorabella, che decide per prima, vuole Guglielmo, e Fiordiligi apprezza il fatto che le spetti il biondo Ferrando. Nel giardino sul mare si ascolta musica di scena (all’aria aperta, quindi per soli fiati): i due albanesi offrono uno spettacolo alle dame, i suonatori e i cantanti arrivano in barca (duetto con coro “Secondate, aurette amiche”). Don Alfonso e Despina incoraggiano gli amanti e le donne a parlarsi e li lasciano soli (quartetto “La mano a me date”). «Oh, che bella giornata!», «Caldetta anziché no»...: la conversazione è impacciata. Poi Fiordiligi e Ferrando si allontanano, suscitando la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla (duetto “Il core vi dono”). Fiordiligi è sconvolta, capisce che il gioco si è mutato in realtà. Quando Ferrando si accomiata (aria “Ah, lo veggio: quell’anima bella”) ella ha un attimo di debolezza e vorrebbe richiamarlo, poi intona un grande rondò (“Per pietà, ben mio, perdona”): ha conosciuto la passione, il suo amore non è più quello virtuoso che serbava al fidanzato ufficiale, è un nuovo sentimento: «è smania, affanno,/ rimorso, pentimento,/ leggerezza, perfidia e tradimento!»; spaventata, rivolge il pensiero al promesso sposo Guglielmo e si proclama a lui fedele. Questi è impacciato nel comunicare a Ferrando che Dorabella ha ceduto facilmente, ma è felice del fatto che Fiordiligi si sia dimostrata «la modestia in carne»; commentando l’infedeltà di Dorabella trova accenti (aria “Donne mie, la fate a tanti”) degni di Don Alfonso, o di Figaro nell’aria del quarto atto delleNozze. Ferrando replica, in una breve cavatina (“Tradito, schernito”), di amare ancora l’infedele fidanzata. In casa, Dorabella esorta Fiordiligi a divertirsi; il tono scherzoso e lo stile disinvolto della sua aria (“È amore un ladroncello”) indicano che Dorabella parla il linguaggio di Despina, si è ‘abbassata’ alla sua morale. Fiordiligi decide di travestirsi da ufficiale e raggiungere il promesso sposo sul campo di battaglia: si fa portare delle vesti maschili, si guarda allo specchio, constata il fatto che cambiare abito significa perdere la propria identità; immagina di trovarsi già sul posto e che Guglielmo la riconosca (duetto “Tra gli amplessi in pochi istanti”), ma Ferrando la interrompe, minacciando di uccidersi. «Taci, ahimè! Son abbastanza/ tormentata ed infelice!» implora Fiordiligi, e Ferrando chiede la sua mano, rivolgendosi a lei con parole che probabilmente Guglielmo non le ha mai detto. «Crudel, hai vinto», mormora la donna; e aggiunge, su una frase dell’oboe: «fa’ di me quel che ti par». Guglielmo ha assistito al dialogo, è furente, e anche Ferrando odia la sua ex fidanzata, ma Don Alfonso, che ha dimostrato quanto voleva, li esorta a finire la commedia con doppie nozze: una donna vale l’altra, meglio tenersi queste «cornacchie spennacchiate»; in un’ottava egli spiega di non voler accusare le donne, anzi le scusa, è colpa della natura se «così fan tutte». Nella sala illuminata, con la tavola imbandita per gli sposi, Despina organizza i preparativi (finale “Fate presto, o cari amici”) e il coro di servi e suonatori inneggia alle nuove coppie. Al momento del brindisi Fiordiligi, Dorabella e Ferrando cantano un breve canone, su un tema affettuoso, da musica da camera, mentre Guglielmo si mostra incapace di unirsi a loro e commenta: «Ah, bevessero del tossico/ queste volpi senza onor!». Il notaio (Despina travestita) fa firmare il finto contratto nuziale; un coro interno intona “Bella vita militar!” e le sorelle rimangono impietrite: tornano i fidanzati. Nascosti gli albanesi in una stanza, esse si preparano ad accogliere Ferrando e Guglielmo, che fingono di insospettirsi quando scoprono il notaio e il contratto; poi si presentano vestiti da albanesi, ma senza cappello, senza mantelli e senza «mustacchi», in modo da essere riconosciuti. Don Alfonso si giustifica: ha agito a fin di bene, per rendere più saggi gli sposi. Le coppie si ricompongono (non si sa quali), tutti cantano la morale: «Fortunato l’uom che prende/ ogni cosa pel buon verso,/ e tra i casi e le vicende/ da ragion guidar si fa».

Il libretto mette in scena la crudeltà dei rapporti fra i sessi e la pretesa maschile del dominio fisico esclusivo su una persona. Il tema dell’infedeltà è spesso presente nella librettistica comica, ma qui ha un sapore diverso: alla prova sono messe due donne di condizione sociale elevata. Per convenzione, nell’opera buffa solo serve, contadine e popolane potevano esprimersi in modo più libero e comportarsi in modo disinibito, in quanto lo schermo della differenza sociale implicava il giudizio negativo da parte dello spettatore. In ottica maschilista, l’infedeltà dell’uomo è stata sempre considerata più ‘naturale’: Don Giovanni e il conte delleNozze di Figarodestano minori preoccupazioni di Fiordiligi e Dorabella, dame «ferraresi» (un omaggio alla civiltà rinascimentale dell’Ariosto). Queste eroine di un nuovo mondo cortese, se si mostrano infedeli vengono bollate dai fidanzati come donne «che non valgono due soldi» e «cagne», o semplicemente «femmine» da Don Alfonso. Immaginiamo il contrario, la stessa vicenda rovesciata: Ferrando e Guglielmo messi alla prova da Fiordiligi e Dorabella travestite, con scambio di coppie (anche la contessa delleNozze, suo malgrado, mette alla prova il marito fedifrago e, travestita da Susanna, ne subisce le pesanti attenzioni; ma subito lo perdona, benedicendolo con una melodia dolcissima che cade dal cielo: «Più docile io sono...»). Proprio una frase di Fiordiligi, nel suo primo recitativo, insinua la prospettiva potenzialmente rovesciata: «Mi par che stamattina volentieri/ farei la pazzarella (...)/ Quando Guglielmo viene, se sapessi/ che burla gli vo’ far!», ma poi sono le donne a subire la burla da parte degli amanti: forse Da Ponte vuole suggerire che tutto è relativo, ogni cosa è il contrario di se stessa, e che il libretto prevede il suo negativo... Allora, cosa succederebbe se a travestirsi fossero le sorelle? Nulla di interessante, nessuna presa in giro crudele, puntualeroutinedrammaturgica: Ferrando e Guglielmo cederebbero subito (altro che finti avvelenamenti), perché «così fan tutti». La prospettiva musicale rovesciata funzionerebbe ancor meno; pensiamo a un Ferrando che canti le arie di Fiordiligi, retoricamente belcantistiche, da opera seria: non sarebbe possibile. La drammaturgia musicale dell’opera di Mozart funziona perché a essere ingannate sono le donne, e perché alle protagoniste femminili è concesso di adottare un registro stilistico che agli uomini non compete: lo stile alto, tragico. Per cantare “Come scoglio”, o anche “Per pietà, ben mio, perdona”, Ferrando dovrebbe diventare un castrato. Ai rappresentanti del ‘maschile’, quasi per contrappasso, è dato esprimersi solamente in una gamma di registri molto ridotta: dal languore delle brevi arie di Ferrando, alla rabbia buffa, in stile comico, di Guglielmo. A Don Alfonso poi non è nemmeno concessa un’aria vera e propria: egli ragiona soltanto, adottando i recitativi accompagnati da opera francese razionalista. Invece la stessa Despina si muove con disinvoltura fra le ampie possibilità retoriche del ‘femminile’: il suo ambito naturale è il ritmo ternario, è la corta melodia facile facile, da cameriera. Ma non è inchiodata lì: può assumere il linguaggio delle sue padrone, quando è chiamata a parlare al loro posto (nel quartetto del secondo atto: «Quello ch’è stato è stato»); nei travestimenti può cambiare sesso, condizione sociale, linguaggio. E Dorabella intona un’aria di furia, ma scivola disinvoltamente nella facilità melodica della cameriera (“È amore un ladroncello”). Scarto di registri, parodia e ironia sono chiavi interpretative spesso adottate nell’esegesi di un’opera che vive di situazioni artificiali e parossistiche, con un libretto che si basa sulla finzione, sulla recita: una sorta di riflessione sulla storia dell’opera buffa. Letta anche musicalmente nella prospettiva sfuggente dell’ambiguità,Così fan tuttesembra diventare un frutto del Novecento, un omaggio allo Stravinskij della musica ‘al quadrato’, tutta citazione... Ma la musica teatrale è sempre parodia: l’opera buffa di fine Settecento, intreccio di parole e gesti vocali-strumentali codificati dalla tradizione, offre a ogni battuta un atteggiamento parodico facile da decifrare. Talmente facile che diventa un abito, ed è quasi impossibile distinguere l’intento ironico, soggettivo, da quel che è il risultato dell’adesione spontanea ai canoni di un genere altamente codificato. Quando Mozart intona le parole «sospir», «sospiretti» e simili, ricorrendo alla tecnica dell’hoquetus, della parola spezzata da frequenti pause a singhiozzo, fa la parodia di una formula abusata, cita consapevolmente quei luoghi in cui egli stesso l’ha impiegata in precedenza, prende in giro le svampitissime sorelle, o semplicemente aderisce al codice musicale che gli impone quello stilema linguistico? Quando richiama più volte una formula melodica precisa, ad esempio quella che prevede una nota tenuta, seguita da una di volta e una rapida scala discendente (nel terzo terzetto, nella prima frase di Ferrando, sulla parola «serenata»; nel primo quintetto, sulle parole «il destin [così defrauda]»; etc.), offre una serie di autocitazioni che significano qualcosa, o propone una formula che traduce lo sfogo di una passione, senza istituire un rapporto diretto fra le varie occorrenze? Tutta la melodia di Ferrando, nel terzetto “Una bella serenata”, sembra citata al culmine drammatico dell’opera, nel duetto del secondo atto (“Tra gli amplessi in pochi istanti”), tra lo stesso Ferrando e Fiordiligi, alle parole «Deh, partite!», «Ah, no, mia vita!»: è una coincidenza o una traccia allusiva? E così via. Più che un intento ironico, sembra sia una volontà di analisi, un’attenzione serissima, tragica, a collegare gli esempi. È una riflessione sul linguaggio musicale, sulla retorica dell’opera buffa: Mozart sembra prendere tutto molto seriamente, assume l’artificiosità e la convenzionalità delle formule espressive di un genere che ha decenni di storia alle spalle, riconosce e sfrutta scopertamente la possibilità di scarti stilistici improvvisi, le risorse di un codice di per sé impregnato di parodia e autocitazione. Così, può illuminare ogni piega dei versi del libretto, può rendere anche una finezza come tradurre musicalmente le figure retoriche: ad esempio nel primo duetto femminile, ai versi «Si vede un sembiante/ guerriero ed amante», «Si vede una faccia/ che alletta e minaccia», i ritmi puntati contrapposti ai languori di appoggiature e arabeschi vocali traducono il chiasmo verbale (guerriero, amante, alletta, minaccia), ma il compositore aggiunge di suo l’amplificazione della seconda frase, con le triplici ripetizioni («che alletta, che alletta, che alletta...»). Il «suono orribile», nella prima aria di Dorabella, è puntualmente tradotto con una ‘fermata barocca’; la corsa palpitante degli archi si blocca e si sentono solo i fiati, a note tenute, nella loro fissità ‘oracolare’, gluckiana: un altro artificio retorico. Per la frase «Mille volte il brando presi», nella seconda aria di Guglielmo, Mozart introduce lo scoppio orchestrale di trombe e timpani, che hanno unicamente la funzione di segnale linguistico: la strumentazione militaresca non è prevista nella struttura di quell’aria, che procede e conclude come aveva iniziato, con gli archi a rotta di collo e le fanfarette dei fiati (flauti, oboi, fagotti, corni). Nella consapevole traduzione ‘letterale’ del testo in figure musicali, l’orchestrazione ha sempre una grande importanza. Clarinetti, fagotti, flauti, oboi, spesso associati a due a due, punteggiano i sospiri degli amanti; i corni sono usati a volte in funzione concertante, non solo come sostegno timbrico; le trombe sono frequentemente impiegate al posto dei corni, senza i timpani: in quest’ultimo caso (prima aria di Fiordiligi, Andante del finale primo, quartetto del secondo atto e “Ah, lo veggio: quell’anima bella”) Mozart si inventa un impasto orchestrale inedito.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi