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Orphée aux enfers
[Orfeo all'Inferno] Opéra-féerie in quattro atti e dodici quadri di Hector-Jonathan Crémieux e Ludovic Halévy
Musica di Jacques Offenbach 1819-1880
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre des Bouffes Parisiens, 21 ottobre 1858 (seconda versione: Parigi, Théâtre de la Gaît)

Personaggi
Vocalità
Bacchus
Recitante
Cupidon
Mezzosoprano
Diane
Soprano
Eurydice
Soprano
John Styx
Tenore
Junon
Soprano
Jupiter
Baritono
l’Opinione pubblica
Mezzosoprano
Mars
Baritono
Mercure
Tenore
Minerve
Soprano
Orphée
Tenore
Pluton
Tenore
Vénus
Soprano
Note
Quando Orphée aux enfers vide la luce sulla scena del piccolo teatro dei Bouffes Parisiens, il pubblico in sala gli accordò subito la sua approvazione, ma nessuno dei presenti pensò di aver assistito a un evento epocale: di lì a poche repliche, invece, l’operetta sarebbe stata sulla bocca di tutti. Era accaduto che l’autorevole critico teatrale del ‘Journal des Débats’, Jules Janin, si era scagliato con particolare violenza sulla nuova fatica di Offenbach, accusandola di gettare fango sulle toghe immacolate delle divinità greche. Molti giornali avevano ripreso le sue accuse provocando un’accesa polemica, il cui risultato furono 228 repliche di fila, interrotte solo per la stanchezza dei cantanti, e un nuovo allestimento nell’aprile 1860 al Théâtre Italien, a una delle cui repliche presenziò addirittura Napoleone III. L’opera venne continuamente ripresentata, e nel 1874 Offenbach ampliò gli originari due atti e quattro quadri in quattro atti e dodici quadri, con l’aggiunta di nuovi numeri musicali e ribattezzando Orphée da opéra-bouffon a opéra-féerie. Questo fu dunque il primo e definitivo successo per Offenbach, e segnò anche una nuova fase nella sua produzione. Infatti, all’apertura del suo piccolo teatro nel 1855, l’anno della prima Esposizione universale, il musicista aveva ottenuto un privilegio che gli permetteva di scrivere solo operette in un atto, con massimo tre personaggi. Un precedente progetto per un opera ispirata al mito di Orfeo era stato accantonato proprio per questo motivo. Quando il suo privilegio teatrale venne ampliato egli ritornò su questa idea, per la quale Crémieux e Halévy avevano gia steso un libretto. Halévy, divenuto segretario generale al Ministero per l’Algeria, non poté poi firmare il testo definitivo, ma il suo nome comparve ugualmente perché l’operetta gli venne dedicata.

Nella scelta del soggetto Offenbach si era forse ispirato alla tradizione della sua città nativa, Colonia, dove ogni anno per carnevale venivano messe in scena delle parodie, spesso di argomento mitologico. La trama, infatti, rivisita in maniera impertinente il mito greco: Orfeo ed Euridice, ben lungi dall’essere un modello di fedeltà, non sono altro che una coppia annoiata. In particolare Eurydice non sopporta più la musica che il marito, violinista di quart’ordine, continua a propinarle (“Ah c’est ainsiâ€) ed è divenuta l’amante del pastore Aristée, il quale non è altri che Plutone travestito. Egli provoca la morte di Eurydice per poterla condurre con sé nel suo regno infero. Orphée è ben felice di essersi liberato di lei, ma a quel punto interviene un originale deus ex machina: l’Opinione pubblica che, in nome di sacri principi («C’est l’honneur qui t’appelle» gli dice), lo costringe invece a chiedere a Jupiter il permesso di scendere nell’Ade per riprendersi la moglie. La scena si sposta dunque nell’Olimpo, dove si assiste al ritorno di Cupido, Venere e Marte dalle loro scappatelle notturne (“Je suis Vénusâ€). Jupiter ne approfitta per far loro la morale, ma gli dèi gli rinfacciano a loro volta le sue imprese amorose (rondeau des métamorphoses: “Pour séduire Alcmène la fièreâ€) e si ribellano sulle note della Marsigliese (chÅ“ur de la révolte: “Aux armes, dieux et demidieuxâ€). Nel pieno della rivolta arriva Orphée scortato dall’Opinione pubblica, e Jupiter si toglie d’impaccio proponendo a tutti una gita all’inferno, che viene accettata entusiasticamente. La scena seguente si svolge nel regno di Plutone dove Eurydice, trascurata, si annoia. Suo carceriere è un malinconico personaggio chiamato John Styx il quale, pur attratto da lei, non osa far altro che cantarle i suoi famosi couplets (“Quand j’étais roi de Béotieâ€), in cui rimpiange il periodo del suo regno su un paese felice. Intanto Jupiter, trasformatosi in mosca, entra nella stanza di Eurydice dal buco della serratura, e riesce a sedurla (duo de la mouche: “Bel insecte à l’aile doréeâ€). L’arrivo degli dèi dà inizio a un banchetto nel corso del quale Eurydice innalza un inno a Bacco (“J’ai vu le Dieu Bacchusâ€), e Jupiter balla un minuetto che si trasforma a mano a mano in una danza sfrenata, il famoso cancan (“Ce bal est originalâ€). I due approfitterebbero della confusione per scappare, ma giunge Orfeo. Jupiter, minacciato dall’Opinione pubblica, non può che acconsentire al rilascio di Eurydice, ma impone a Orphée la condizione riportata dal mito: nel viaggio di ritorno non dovrà mai voltarsi a guardarla. Orphée accetta a malincuore e sta per portare a termine la sua impresa, quando Jupiter gli scaglia contro un fulmine che lo costringe a voltarsi. L’Opinione pubblica è giocata ed Eurydice, trasformata in baccante, intona le note del famoso galop infernale.

Oltre che una satira dell’antichità, Orphée è una satira dell’opera settecentesca. Per Offenbach la classicità è un residuo del XVIII secolo, come dimostrano il minuetto danzato da Jupiter e la scrittura vocale per Eurydice. Il punto di riferimento della parodia è ovviamente Gluck: la celeberrima “Che farò senza Euridice†è citata per ben due volte. Dapprima accennata quando Orphée, istigato dall’Opinione pubblica, si presenta a Jupiter per chiedere l’autorizzazione a scendere agli inferi, e poi integralmente nella scena del suo arrivo all’inferno. Anche il duo de la mouche è una garbata presa in giro delle convenzioni dell’opera, con Jupiter ed Eurydice che cantano solo «Zi» su un’appassionata musica da duetto d’amore in piena regola. Come nel caso della Belle Hélène, però, a essere messa in burletta è soprattutto la società parigina del secondo Impero, come dimostra la geniale invenzione del personaggio dell’Opinione pubblica quale nuovo deus ex machina. Jupiter, perennemente assetato di avventure erotiche, è un ritratto dell’imperatore Luigi Napoleone, e il coro delle divinità, pronte prima a rivoltarsi contro «il nettare e l’ambrosia», e poi a ritornare sui propri passi solo per la promessa di un viaggio all’inferno, è immagine di quella società pronta a dimenticare tutto per i divertimenti. Il brano più famoso di Offenbach, il galop infernal, rispecchia proprio questa scandalosa joie de vivre. Nella vena di Offenbach non ci sono però solo ironia o satira graffiante, ma anche malinconia. Forse anche questo gli meritò da parte di Rossini il soprannome di «Mozart dei Champs-Elysées». Nelle sue operette c’è spesso un momento di nostalgia per un passato perduto, carico di bellezza, purezza e grazia: in Orphée esso si incarna in John Styx, un tempo re di Beozia e ora guardiano dell’Ade, e nei suoi malinconici couplets.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi


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