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Cavalleria rusticana
Melodramma in un atto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, dal dramma omonimo di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni 1863-1945
Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 17 maggio 1890

Personaggi
Vocalità
Alfio
Baritono
Lola
Mezzosoprano
Lucia
Contralto
Santuzza
Soprano
Turiddu
Tenore
Note
La data di nascita di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (17 maggio 1890) è stata assunta dalla storia come termine di riferimento, anzi come spartiacque per disegnare l’evoluzione del melodramma italiano di fine Ottocento. Il panorama che l’Italia postunitaria offriva nell’ambito della musica teatrale era variegato, ma tutt’altro che entusiasmante: nonostante le impennate avveniristiche del Mefistofele (1868-75) di Boito, intriso di cultura germanica, e qualche altra velleitaria espressione della Scapigliatura come l'Amleto (1865) di Franco Faccio, il maggiore epigono verdiano, Amilcare Ponchielli, aveva preferito adagiarsi sugli schemi consolidati dell’opera romantica, con robusti innesti di elementi corali e coreografici recuperati dai modelli del grand-opéra francese (si pensi a La Gioconda, del 1876, al suo terzo atto con la ‘Danza delle ore’); il suo solido mestiere, una buona inventiva melodica, una conoscenza delle voci e dei meccanismi drammaturgici più funzionali avevano fatto di lui l’unico autore di un certo rilievo nel decennio 1870-80, e un autorevole maestro di composizione al Conservatorio di Milano. Ma quando si rappresenta Cavalleria rusticana, la calma routine di quegli anni viene letteralmente sconvolta (neppure Puccini, con Le Villi del 1884 e l'Edgar del 1889, aveva proposto qualcosa di altrettanto originale e provocatorio): si parla di rivelazione, di capolavoro, al limite del caso e dello scandalo; e il giovane musicista livornese diviene all’improvviso famoso, l’opera varca in pochi mesi le Alpi, mietendo successi e riconoscimenti critici ovunque, perfino in Germania e Austria, dove il severo Eduard Hanslick dedica al lavoro un saggio entusiastico. Sull’onda di questo autentico trionfo, Mascagni sarà poi costretto a una attività convulsa, improntata a una volontà di rinnovamento drammaturgico e stilistico, a una sorta di sperimentalismo e di crescita culturale che saranno i tratti caratteristici della sua produzione matura.

Ma al tempo di Cavalleria rusticana egli era pressoché uno sconosciuto: nato in una modesta famiglia di Livorno, iniziati gli studi sotto la guida di Alfredo Soffredini, si era fatto conoscere nella sua città con liriche, pezzi sacri, cantate; trasferitosi poi a Milano per studiare con Ponchielli, aveva respirato l’aria scapigliata iniziando un’opera, Guglielmo Ratcliff, tratta da un fosco dramma di Heinrich Heine; ma poi aveva abbandonato il Conservatorio senza conseguire il diploma di composizione. E da un grosso borgo della Puglia, Cerignola, dove si era stabilito, partecipa al concorso per un’opera inedita in un atto indetto dall’editore Sonzogno, e lo vince con questo lavoro ispirato all’omonimo dramma di Giovanni Verga, il maestro del verismo letterario. Senza dubbio, tra i motivi che determinarono la fortuna di Cavalleria rusticana si debbono annoverare il drammatico soggetto, la sua passionalità accesa, l’ambiente popolare: le teste coronate del melodramma romantico (compresa Aida, schiava etiope, ma figlia di re) venivano soppiantate da una classe proletaria dai sentimenti elementari e violenti come amore, vendetta, tradimento, a cui finalmente rivolgeva una qualche attenzione il genere operistico, convenzionale e paludato; i poveri personaggi, diseredati sociali, ‘vinti’, secondo la qualificazione verghiana – soprattutto Santuzza, ma anche Turiddu e Mamma Lucia – trovano udienza sulla scena lirica, grazie a un compositore che sa interpretarne i moti più profondi e tradurli in un linguaggio essenziale ed efficace. Del giovane musicista dovette impressionare la vena di canto nuova e personale nella sua spontaneità un po’ irruenta, al limite della volgarità, l’originale impiego delle voci, sospinte verso il registro acuto, che veniva raggiunto con slancio, spesso con una forza confinante con il grido; ma Mascagni si faceva apprezzare anche per la bella sicurezza con cui manovrava le masse corali, ricorrenti in tutto l’atto, a rafforzare il senso di una presenza di massa, di un popolo in scena; e soprattutto per gli ampi squarci sinfonici, inseriti quasi a dimostrazione che un musicista che volesse essere ‘moderno’ non poteva – dopo l’esempio wagneriano – non affidare all’orchestra un ruolo di spicco, in una rinnovata concezione dell’opera in musica.

Se questi furono gli aspetti più clamorosi che fecero la fortuna immediata di Cavalleria rusticana, a distanza di oltre un secolo non sarà tuttavia difficile osservare che, accanto a evidenti tratti di novità, essa presentava un solido impianto che non rompeva con la tradizione, come invece accadeva per l’altra opera che Mascagni stava componendo – e che interruppe – in quegli anni, Guglielmo Ratcliff. In questo lavoro giovanile, Mascagni aveva tentato un geniale esperimento sulla parola, alla ricerca di un recitativo-arioso libero, asimmetrico, ad ampie arcate, e di una struttura che prescindesse in toto dalla divisione in numeri chiusi. Ma era naturale che, scrivendo per un concorso, Mascagni non intendesse rischiare troppo, adottando soluzioni che potessero in qualche modo sapere di ‘melodia infinita’, e attirare su di lui l’accusa di wagnerismo; così, a cominciare dal frontespizio, in cui Cavalleria rusticana è ancora indicata come ‘melodramma’, l’opera adotta una struttura ripartita ‘a numeri’ (romanze, duetti, concertati), una distribuzione convenzionale dei ruoli vocali (i due amanti, tenore e soprano; la rivale, l’Altra, mezzosoprano, e l’Altro, l’«Uomo nero» secondo la sorridente definizione di Palazzeschi, baritono); e si apre addirittura con un preludio e, soprattutto, con un coro d’introduzione, secondo la migliore tradizione del melodramma romantico. Ma si pensi, però, quale effetto dirompente ha l’inedito inserimento, a sipario chiuso, della serenata di Turiddu in dialetto siciliano (“O Lola ch’ai di latti la cammisaâ€), con l’accompagnamento dell’arpa, quasi una chitarra amplificata, che interrompe – come una ventata di accesa passionalità – il bel preludio strumentale. E l’originalità di Mascagni si fa notare anche in altre soluzioni: egli recupera le forme chiuse della tradizione solo quando la vicenda drammatica richieda l’inserimento di una canzone; compone insomma quella che si suol definire ‘musica di scena’, quando, cioè, anche fuori della finzione scenica, nella vita, i personaggi impiegherebbero un canto intonato e non la semplice parola detta. Sono episodi numerosi e inequivocabili: il coro “Gli aranci olezzano†e la preghiera “Inneggiamo, il Signor non è mortoâ€, e poi la sortita di Alfio carrettiere “Il cavallo scalpitaâ€, lo stornello di Lola “Fior di giaggioloâ€, il brindisi di Turiddu “Viva il vino spumeggianteâ€. Si tratta, con l’inserimento di questi canti, di un’adesione al principio della ‘verità’, che l’estetica naturalistica trasmette a una forma tipicamente non-realistica come l’opera lirica, avviandone la radicale trasformazione verso il dramma musicale.

Ma là dove il libretto non prevede canzoni o simili, Mascagni propone soluzioni più geniali e personali, soprattutto per quanto attiene il profilo del recitativo, che viene innervato di una carica melodica a dir poco inedita. Si sa che per il compositore livornese il problema del recitativo sarà oggetto di riflessioni e sperimentazioni continue, dal primo caso di Ratcliff alla Parisina (1913), su testo di D’Annunzio, fino all’estremo lavoro teatrale, il Nerone (1935); e Cavalleria rusticana offre già risultati eccellenti di questa ricerca: ricordiamo, ad esempio, nella scena di Santuzza con Lucia, la frase «Mamma Lucia, vi supplico piangendo,/ fate come il Signore a Maddalena», o l’attacco del duetto Santuzza-Turiddu “Tu qui, Santuzza?â€, che non hanno più nulla del recitativo convenzionale. E naturalmente questa volontà melodica si estende ancor più alle ‘romanze’, ai brani destinati ad essere estrapolati dalla partitura e cantati come pezzi da concerto, i quali però hanno un andamento e un taglio che non assomigliano più alla composta stroficità di un “Cielo e mar†dalla Gioconda, o di una “Celeste Aidaâ€: in esse Mascagni adotta un tipo di costruzione ‘a episodi’ (solo rari esempi isolati potevano ritrovarsi in Verdi: pensiamo alla scena aggiunta nel 1865 al Macbeth, “La luce langueâ€, e alla grande aria di Elisabetta “Tu che le vanità†nel Don Carlos ); sono una serie di nuclei melodici, dei pensieri musicali in sé conclusi, senza rispondenze strofiche, di diversa ampiezza e di carattere contrastante, che seguono lo svolgersi narrativo del testo. Esempio principe di questo nuovo articolarsi della forma-romanza è la sortita di Santuzza, nella quale si possono individuare almeno tre blocchi lirico-espressivi (“Voi lo sapete, o mammaâ€, ripreso e variato nel successivo «Tornò, la seppe sposa»; il centrale «Quell’invida» e la chiusa «Priva dell’onor mio») che corrispondono alle fasi di un autentico ‘racconto’ che si dipana di fronte al pubblico, e sostituisce il principio dell’aria lirica, statica, che era stato il retaggio di quasi tre secoli di melodramma. E si consideri anche che l’assolo di Santuzza non si conclude sul la di «io piango», ma si salda senza soluzione con l’intervento di Mamma Lucia «Miseri noi...» e con le altre battute di dialogo fra le due donne. Analoga la struttura dell’‘Addio alla madre’, ove due ampie arcate cantabili, «Ma prima voglio» e «Voi dovrete fare» (riproposto e variato in «Per me pregate Iddio»), sono alternate a episodi in stile arioso, innervato di forti spunti melodici, ma addirittura interrotte dall’intervento di Mamma Lucia «Perché parli così, figliolo mio?», a confermare la violenza al modello del pezzo chiuso che Mascagni intende fare, inserendo nella scena a solo il principio del dialogo. Sono soluzioni formali stabilite nel 1890, a cui guarderà negli anni successivi, facendole sue, Giacomo Puccini, a cominciare dalla scena “Sola, perduta, abbandonata†di Manon Lescaut (1893), grande esempio di aria-racconto.

Il pubblico che decretò il trionfo internazionale di Cavalleria rusticana, forse, non fu colpito dalle novità stilistiche e formali cui s’è fatto cenno; ciò che più trascinò e convinse fu senza dubbio quel senso di ‘aria aperta’, di Sicilia presa dal vivo, quasi di cinematografia ante litteram, che la partitura suscitava ad ogni momento, al di là degli evidenti ossequi alla tradizione; fu quell’inedito clima paesano tutto d’invenzione, senza alcun rispetto per il folclore siciliano, ricreato con il toscanissimo stornello di Lola o con gli altri canti d’impronta popolaresca (“Il cavallo scalpitaâ€, “Viva il vinoâ€); fu soprattutto il sensuale empito melodico che si espandeva dagli interventi solistici ai cori e alle ampie pagine sinfoniche, come il fortunatissimo ‘Intermezzo’, di straordinaria inventiva musicale e capacità emotiva, che costituì anche per Mascagni un modello da tener sempre presente, come il celebre ‘Sogno’ del suo Ratcliff, quasi certamente già composto. Un nuovo mondo espressivo, per cui gli affetti sono dipinti in scene sintetiche e coinvolgenti, un’originale proposta drammaturgica improntata a una tensione costante, a un’assoluta necessità, venivano scoperti in questo rapido atto ispirato al Verga: e in un’epoca in cui il teatro lirico era ancora un’impresa commerciale redditizia, era naturale che, sull’onda del successo di Cavalleria rusticana, non solo il suo creatore, ma altri compositori ed editori tentassero di riprenderne modelli e ambienti. Così, negli anni immediatamente successivi al 1890, una vera miriade di drammi passionali e di sangue, di ambiente popolare, e con forti caratterizzazioni regionali, invade la scena operistica, a voler mostrare – come già era avvenuto in letteratura – che il Regno d’Italia non si riduceva solo a Milano, Roma e Torino, ma comprendeva un mondo ben altrimenti articolato, sofferente e drammaticamente isolato dallo sviluppo commerciale e dal progetto sociale che investiva soltanto il Nord della penisola. Una rapida scorsa ai titoli di quegli anni: Mala Pasqua! (ancora sulla Cavalleria del Verga, del 1890) di Gastaldon; Silvano dello stesso Mascagni e Nozze istriane di Smareglia (entrambi del 1895); Mala vita di Giordano (1892), tratta da ’O voto di Salvatore Di Giacomo; A Santa Lucia di Tasca, la Tilda di Cilea e soprattutto i fortunatissimi Pagliacci di Leoncavallo, tutti del 1892: è l’Italia del Sud che sul palcoscenico illustre dell’opera fa sentire la sua presenza, troppo a lungo elusa, con i suoi autori e le sue vicende; è un’Italia ancora povera e semianalfabeta che a teatro, almeno, si sente finalmente rappresentata con una voce sonora e convincente.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi


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