Nella cultura francese del secondo Settecento, da Diderot in poi, si assiste al diffondersi un nuovo modo di considerare la follia: non più deformazione della ragione, ma fonte di verità e superamento del limite. È specialmente la follia amorosa, segno distintivo delle anime belle, ad attirare l’attenzione dei letterati. Il fenomeno, come molti altri in quel secolo, parte dall’Inghilterra, sull’onda della diffusione del romanzo sentimentale, e ha le sue fonti in autori come Richardson, Mackenzie, Sterne (oltre che nella figura di Ofelia, posta al centro dell’interesse dalla crescente fortuna francese di Shakespeare). In particolare il personaggio di Clementine, impazzita per amore nel
Sir Charles Grandisondi Richardson, genera in Francia una piccola schiera di
Nouvelles Clémentinesuscite dalla penna di romanzieri e autori teatrali (Léonard, Monvel, Baculard d’Arnaud). Le fila di quel tema letterario vengono raccolte da Marsollier nella sua
Nina ou La folle par amour, una
comédie mêlée d’ariettesandata in scena alla Comédie Italienne di Parigi nel 1786, con la musica di Nicolas Dalayrac. L’enorme successo favorì l’esportazione della
Ninafrancese in Italia; nel 1788 venne messa in scena al teatro della Villa Reale di Monza e al Teatro della Cannobiana di Milano in una traduzione italiana di Giuseppe Carpani, ma nella veste musicale originale. L’anno dopo lo stesso testo italiano, arricchito da alcune aggiunte a opera di Lorenzi, venne musicato da Paisiello e rappresentato di fronte ai reali di Napoli in occasione di una loro visita alla cosiddetta ‘popolazione di San Leucio’. In quel luogo, prossimo alla reggia di Caserta, sorgeva un casino di caccia (il Belvedere) fatto riedificare nel 1773 dal re e usato per qualche anno come luogo di piacere della corte. Accanto al Belvedere era stata impiantata una manifattura di seta e realizzato un villaggio per i lavoranti. La vita della comunità, che giunse a comprendere circa duecento membri, era governata da un regolamento volto a creare dall’alto un esempio di società ideale, coniugando principi egualitari e assoluta devozione al sovrano. Il lusso era bandito, essendo il ‘merito’ l’unica forma di distinzione; il principio dell’amore fraterno elevato a base della coesistenza; i matrimoni alieni da qualunque motivo di interesse («nella scelta non si mischino punto i Genitori, ma sia libera de’ giovani», prescrivono le regole pubblicate a Napoli nel 1784). Non può meravigliare che proprio in un ambiente simile si sia scelto di mettere in scena uno spettacolo edificante come la
Nina, estrema celebrazione in chiave borbonica delle utopie settecentesche e rousseauiane. Marsollier aveva infatti sceneggiato la storia di un amore contrastato tra la figlia di un nobile e un giovane di condizione più bassa, con il lieto fine a ristabilire il primato dei sentimenti sul pregiudizio. È un genere di vicenda comunissimo nel Settecento, ma qui gli effetti dell’imposizione paterna (il conte ritira l’assenso alle nozze, lusingato dalle proposte di un pretendente più ricco e nobile) sono rovinosi: il fidanzato sfida a duello il rivale e ne esce gravemente ferito, mentre la ragazza impazzisce credendolo morto. L’episodio di sangue e la conseguente perdita del senno rappresentano l’antefatto; l’azione consiste invece nei deliri di Nina, che immagina inesistenti appuntamenti con l’amato, nei rimorsi del padre e poi nel ritorno del giovane e nelle varie fasi del riconoscimento che strappa la folle alla sua incoscienza.
Già nel 1789 l’opera di Paisiello approdò a Napoli, al Teatro dei Fiorentini, nella stessa versione ascoltata a San Leucio. L’anno dopo fu rappresentata, ancora ai Fiorentini, una nuova versione in due atti, riveduta e ampliata dal solito Lorenzi. Per l’occasione Paisiello aggiunse tre pezzi nuovi: la canzone del pastore, un’aria del servitore Giorgio e il quartetto alla fine del primo atto. Rimasero i dialoghi parlati ereditati dallapiècefrancese e sostituiti da recitativi all’italiana solo a partire dal 1794. Nell’ultimo decennio del secolo l’opera ebbe ovunque un’accoglienza entusiastica, segno della sua perfetta aderenza alle istanze culturali di fine secolo. Quasi tutte le testimonianze confermano la facoltà paisielliana di suscitare nell’ascoltatore il «piacere delle lacrime». Le melodie che Paisiello mette in bocca a Nina e al coro di ‘villanelle’ sono infatti il punto di arrivo della vocalità ‘affettuosa’ e antivirtuoistica a lungo coltivata dall’opera italiana non seria nel corso del Settecento. Il canto della protagonista persegue scopertamente il fine della commozione con il suo fraseggio a corto respiro, spesso interrotto da pause, e con i suoi cromatismi. Un’analoga funzione espressiva è affidata agli strumenti in veste solistica, e che rappresenta uno degli aspetti salienti della partitura (da ricordare almeno l’impiego del flauto solo nella celeberrima cavatina “Il mio ben quando verrà”). All’alone di tenerezza da cui è avvolta la vicenda contribuisce in modo decisivo la cornice agreste. Gli spettatori torinesi che nel 1794 scrissero una lettera collettiva al compositore dicendo di aver sentito risvegliare in se stessi «il gusto delle feste campestri, ed il desiderio de’ piaceri semplici dell’innocente natura», avevano certo in mente la morbidezza presepiale del coro introduttivo di contadini o il fascino apertamente folclorico della canzone intonata in lontananza da un pastore (“Già il sol si cala dietro alla montagna” in 12/8 e con accompagnamento di zampogna). I pochi momenti d’azione concessi dal libretto sono trattati come concertati da opera buffa, ma con frequenti parentesi di contrappunto in stile sacro, a sottolineare la portata etica della vicenda. La corsa gioiosa dell’Allegro conclusivo è poi ripetutamente arrestata da un inciso a valori lunghi, in forma di corale a quattro voci,sottovoce, e con cadenza d’inganno: l’ultima incursione sul versante sacro serve così a intonare il motto finale: “Figlio è amor della pietà”.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi