Opera fra le piĂš sofferte ed elaborate nellâintero percorso creativo verdiano,
Don Carlosoffre ancor oggi spunti di discussione e perfino di polemica soprattutto a causa delle due versioni allestite dallâautore, una in cinque atti per lâOpĂŠra di Parigi â conforme pertanto alle consuetudini spettacolari del
grand-opĂŠrafrancese â, lâaltra in quattro, con tagli sensibili e dolorosi, per i palcoscenici italiani. Critica ed esecutori sono divisi nellâappoggiare lâuna o lâaltra partitura, ma certo lâedizione in quattro atti in lingua italiana ha finora goduto di una larga preferenza, anche a ragione della sua maggiore sintesi e delle minori difficoltĂ dâallestimento. Grazie alla recente edizione critica, stabilita da Ursula GĂźnther e pubblicata da casa Ricordi, è stata inoltre documentata lâabbondante quantitĂ di musica (ben otto pezzi) che Verdi stesso ebbe a sopprimere avanti la
premièreparigina: alcune di queste pagine furono ripresentate nellâedizione scaligera del 1977 diretta da Claudio Abbado, ma in lingua italiana. Successivamente lo stesso Abbado, con le masse artistiche del Teatro alla Scala, incise su disco la versione in cinque atti in francese, lasciando in appendice le parti soppresse da Verdi e il gran ballo della Peregrina. Ă questa, a tuttâoggi, lâedizione piĂš completa che si conosca del
Don Carlos. Tuttavia, è ormai largamente diffusa nella pratica teatrale anche lâulteriore versione preparata da Verdi nel 1886, in cinque atti come quella originale, ma in italiano e senza i ballabili.
La complessa realtĂ delle tante redazioni autografe (almeno cinque in tutto, contando la partitura della prova generale allâOpĂŠra, quella della âprimaâ, quella napoletana del 1872 e le due diverse edizioni pubblicate da Ricordi, in quattro e in cinque atti) ha inciso per molti anni anche sulla fortuna esecutiva dellâopera, che non sempre ha trovato grande attenzione fra il pubblico e gli interpreti. Giudicato a lungo come un lavoro troppo tortuoso, prolisso, gravato di unâatmosfera opprimente, ilDon Carlosha cominciato a imporsi davvero come uno dei massimi conseguimenti dellâarte di Verdi soltanto a partire da questo secondo dopoguerra, nel quale ha trovato grandi direttori dâorchestra capaci dâimporlo al pubblico e di conquistare quella ÂŤpenetrazione musicale e drammaticaÂť (Budden) che è la condizione essenziale per garantire unâimmagine autorevole e fedele dei significati dellâopera. Fra i principali artefici della sua rinascita, si debbono citare almeno i nomi di Herbert von Karajan, Carlo Maria Giulini, Georg Solti e soprattutto Claudio Abbado, senza tralasciare il decisivo contributo dato con le sue due regie dellâopera (Londra e Roma) da una personalitĂ artistica della statura di Luchino Visconti.
Atto primo. 1568, anno del trattato di pace fra Spagna e Francia. Nella foresta di Fontainebleau alcuni boscaioli tagliano legna; giunge Elisabetta di Valois (figlia del re francese Enrico II) in compagnia del paggioTebaldo e di un seguito di cacciatori. Nel frattempo Don Carlo, figlio del re di Spagna Filippo II, osserva nascosto il passaggio della principessa, che egli crede a lui destinata in sposa come sigillo della pace fra le due nazioni. Rimasto solo in scena, lâinfante esprime il suo amore a prima vista per ÂŤla bella fidanzataÂť, e invoca la benedizione di Dio sui suoi casti sentimenti (âIo la vidi e al suo sorrisoâ). Sâode in distanza il suono del corno e quindi Carlo incontra Elisabetta eTebaldo, che si sono smarriti nella foresta; Carlo si presenta come un nobile spagnolo al seguito dellâambasciatore e offre alla principessa la sua protezione. Rimasti soli, i due giovani conversano dellâimminente pace e del matrimonio: Elisabetta chiede come sia il suo ancora sconosciuto promesso sposo e Carlo lâassicura che lâinfante giĂ arde dâamore per lei. Quindi le porge un ritratto e Elisabetta comprende dâessere al cospetto del suo fidanzato, che le dichiara il suo amore (duetto âDi qual amor, di quantâardorâ). Sâode il suono del cannone che annuncia la firma del trattato di pace, e poco dopo rientra Tebaldo, che sâinginocchia davanti a Elisabetta salutandola regina di Spagna: Filippo II ha infatti deciso di sposare la giovane principessa. Nel generale tripudio, i due innamorati vedono infranti i loro sogni e si separano straziati dal destino crudele che li ha visti pedine inconsapevoli nel gioco dei potenti (âLâora fatale è suonataâ).
Atto secondo.Quadro primo. Nel chiostro del convento di San Giusto, laddove Carlo V ha la sua tomba, un coro difrati celebra la pochezza umana e la fragilitĂ dei potenti in confronto allâeterna grandezza di Dio; sopraggiunge Don Carlo, che cerca nel chiostro quiete alle sue pene. Gli si avanza incontro lâamico Rodrigo, marchese di Posa, e cerca dâimpegnare lâinfante nella difesa dellâoppresso popolo fiammingo; chiede tuttavia ragione del turbamento del principe e apprende con orrore che egli ama colei che è diventata la sua matrigna. Lo sprona allora a farsi inviare dal re nelle Fiandre, e a coltivare il supremo valore dellâamicizia e della libertĂ (duetto âDio che nellâalma infondereâ). Lâimprovviso passaggio del re e della regina getta tuttavia Carlo nello sconforto.Quadro secondo. In un giardino non lontano dal convento di San Giusto, le dame e Tebaldo fanno ala alla principessa Eboli, che canta una canzone saracena, la âcanzone del veloâ. Entra Elisabetta, e a lei si presenta Rodrigo con una lettera di Carlo. Mentre la regina legge turbata, Rodrigo cerca di distrarre Eboli e le altre dame con le ultime notizie dalla corte di Francia, e quindi implora Elisabetta di incontrare lâinfante (âCarlo, châè sol il nostro amoreâ). Carlo giunge al cospetto dâElisabetta nella massima agitazione: ella gli assicura il suo appoggio per il viaggio in Fiandra, ma Carlo le rinnova le sue disperate profferte dâamore e quindi fugge. Allâimprovviso entra Filippo che, trovando la regina sola, caccia dalla corte la dama di compagnia, la contessa dâAremberg. Elisabetta consola lâamica (âNon pianger mia compagnaâ) e si congeda dal consorte. Filippo rimane a colloquio con Rodrigo, che chiede al re libertĂ per il popolo fiammingo, accusandolo dâimporre ai suoi stati ÂŤla pace dei sepolcriÂť. Filippo fingerĂ di non aver ascoltato la provocazione, ma mette in guardia Rodrigo dal grande Inquisitore e cerca dâavere il marchese alleato al suo fianco, confidandogli il suo atroce sospetto nei confronti di Carlo e della regina.
Atto terzo.Quadro primo. Nei giardini della regina, di notte. Carlo crede dâesser stato convocato a un appuntamento da Elisabetta: la missiva anonima è invece di Eboli, innamorata del principe, che giunge e che, per qualche istante, Carlo crede la regina: quando la luce lunare rivela la vera identitĂ della convenuta, Eboli comprende quale amore proibito lâinfante porti in cuore, e lo minaccia. Arriva Rodrigo, che sta quasi per uccidere la furibonda Eboli (terzetto âTrema per te falso figliuoloâ). Rimasto solo con Don Carlo, lâinvita a confidare nel suo aiuto e nella sua fedeltĂ .Quadro secondo. Nella grande piazza davanti alla cattedrale di Valladolid il popolo si prepara ad assistere alla cerimonia dellâautodafĂŠ. Quando il re sta per dare inizio al rito, sopraggiunge Carlo alla testa di sei deputati fiamminghi per chiedere al padre dâesser nominato vicerĂŠ di Fiandra e Brabante. Al rifiuto di Filippo, Carlo snuda la spada e giura di salvare dalla tirannia il popolo fiammingo. Filippo ordina che si disarmi lâinfante, ma nessuno osa avvicinarsi. Solo Rodrigo osa togliere la spada a Carlo, che si sente tradito dallâamico; il rito riprende con gli eretici condotti al rogo dai frati dellâInquisizione.
Atto quarto.Quadro primo. Filippo insonne è solo nel suo studio: medita sulla sua solitudine, sul suo amore non corrisposto per la regina, e invoca lâora della morte (âElla giammai mâamòâ). Fa quindi il suo ingresso il grande Inquisitore, terribile cieco ottuagenario. Il re lâha convocato per aver consiglio su come punire lâinfante, e lâInquisitore pretende dal monarca la testa di Carlo e anche quella di Posa, lasciando cosĂŹ il trono per lâennesima volta succube dellâaltare. Ă poi la regina a entrare nella stanza di Filippo, invocando giustizia: il suo scrigno personale è stato rubato. Il portagioie è però in mano dello stesso Filippo, che aprendolo vede il ritratto di Carlo e accusa la moglie dâadulterio. Elisabetta sviene e Eboli viene chiamata a soccorrerla. Filippo esce allora accompagnato da Rodrigo e la principessa, rimasta sola con la regina, le chiede perdono per averla tradita e aver consegnato al re lo scrigno. Le confessa dâaverlo fatto per amore di Carlo, ed Elisabetta la costringe allâesilio. Disperata, Eboli maledice la propria vanitĂ muliebre (âO Don fataleâ).Quadro secondo. Incarcerato, Carlo riceve la visita di Rodrigo che gli porta la speranza di libertĂ e il suo addio. Sa infatti dâessere preda del grande Inquisitore (âPer me giunto è il dĂŹ supremoâ). Allâimprovviso, infatti, un colpo dâarchibugio uccide Rodrigo, che prima di morire raccomanda allâamico di recarsi lâindomani a San Giusto per un ultimo colloquio con la madre. Sâode il fragore dâuna sommossa, e Filippo giunge in carcere a restituire al figlio la libertĂ . Carlo maledice il padre e lâaccusa della morte di Rodrigo, sul cui cadavere il re lamenta invece la perdita dâun amico. Frattanto il popolo preme alle porte della prigione per la libertĂ di Don Carlo, e Filippo ordina che si lascino entrare i rivoltosi: questi si fermano tuttavia di fronte allâapparizione terrificante del grande Inquisitore, che intima a tutti di prostrarsi davanti allâautoritĂ regia.
Atto quinto. La scena del secondo atto, nel chiostro del convento di San Giusto. Eisabetta prega sulla tomba di Carlo V (âTu che le vanitĂ conoscesti del mondoâ) e, nellâattendere lâarrivo di Don Carlo colĂ convocato, ricorda il dolce incontro con lâinfante nella foresta di Fontainebleau e piange la perduta felicitĂ , aspirando solo alla ÂŤpace dellâavelÂť. Giunge quindi Carlo, e la regina gli comunica dâaverlo voluto incontrare solo per dirgli addio e benedirlo prima della fuga in Fiandra. Con grande strazio i due si congedano, ma proprio in quel punto sono sorpresi da Filippo e dal grande Inquisitore. Il re consegna Carlo ai frati del SantâUffizio: mentre lâinfante indietreggia verso la tomba, sâapre il cancello di questa e il frate, in abito di Carlo V, trascina con sĂŠ nelle profonditĂ della cripta Don Carlo (questa conclusione repentina, raggiunta da Verdi soltanto nella versione in quattro atti del 1884, era preceduta nella versione originale francese da una sorta di processo sommario a Carlo, giudizio poi interrotto dallâapparizione del frate come fantasma del defunto imperatore. Ricordiamo inoltre che nellâedizione in quattro atti viene soppresso per intero âlâatto di Fontainebleauâ).
ConDon CarlosVerdi sâaccostò per la quarta e ultima volta a un dramma di Schiller, il poeta che condivide con Hugo e Shakespeare il primato fra gli autori prediletti dal musicista. A differenza di quanto era accaduto conGiovanna dâArco,I masnadierieLuisa Miller, Verdi si mantenne qui ben altrimenti fedele allo spirito del dramma schilleriano, pur sottoponendolo a innumerevoli cambiamenti. Tra i piĂš importanti, si deve registrare la soppressione (per motivi dâeconomia) dei personaggi del duca dâAlba e di frate Domingo, nonchĂŠ lâinserzione dâuna grande scena corale e spettacolare come quella dellâautodafĂŠ che chiude il terzo atto, epressamente richiesta da Verdi ai suoi librettisti francesi fin dalle primissime lettere scambiate fra le parti in merito allâipotesi di musicareDon Carlos. Rimane tuttavia intatto, come sâaccennava, lo spirito che presiede al fluviale lavoro del poeta tedesco: in particolare, Verdi fu attratto dalla tesi politica dâuna impossibile alleanza fra lâassolutismo e il liberalismo (incarnati rispettivamente nelle figure di Filippo e di Posa). Per questo, dalle varie dichiarazioni di Verdi, risulta ben chiaro che il re di Spagna è il vero protagonista dellâopera. Anche lâamore impossibile fra la regina e lâinfante, peraltro, entrambi vittime della ragion di stato, fece facile breccia nella sensibilitĂ del compositore, che in quel medesimo periodo stava tra lâaltro accarezzando lâidea di mettere in musica unaFedra: il tema quasi psicanalitico delle due vicende dierosfrustrato è palesemente simile.
Immediatamente dopo la âprimaâ parigina, allâopera furono mosse critiche ingiuste e impietose: Verdi fu accusato soprattutto di povertĂ melodica e di muoversi in una pericolosa direzione wagneriana. Certo, tutti furono colpiti dal clima morboso che sâaggira nelDon Carlos, dalle sue armonie moderne e dalla concezione sempre piĂš affrancata dalla struttura tradizionale in pezzi chiusi. In realtĂ , la drammaturgia verdiana seguiva fedelmente la propria strada: sarebbe infatti impossibile immaginare le soluzioni delDon Carlossenza la decisiva sperimentazione attuata nellaForza del destino, con la sua dilatazione temporale e lâambiziosa tendenza a tradurre in opera lirica il modello narrativo deiPromessi sposimanzoniani. Al di lĂ dei penetranti ritratti psicologici di cui ilDon Carlosè portatore, una delle conquiste piĂš singolari di questo lavoro cosĂŹ singolare è la trasformazione del modello vetusto delgrand-opĂŠrain vera opera: Verdi è riuscito a non lasciarsi condizionare dagli obblighi spettacolari di quel genere, sfruttando per contro quellâespansione e quella contaminazione dispersiva delle forme ai fini dâuna complessa, sottile, veemente adesione ai mille problemi sollevati dalla scelta dâun dramma che certo non aveva in partenza le doti di sintesi e dâagilitĂ scenica tanto care al Verdi degli anni immediatamente precedenti. Non a caso,Don Carlosè imparentato assai piĂš al prototipo delgrand-opĂŠra, lo schillerianoGuillaumeTelldi Rossini, che non aiVĂŞpres siciliennesdello stesso Verdi, rispetto ai quali la sintesi fra opera francese e melodramma italiano è assai piĂš felice e risolta. Il progresso sta dunque â oltre che nei supremi vertici raggiunti dalla sua ispirazione â nellâimpiego di uno stile francese finalmente senza pregiudizi o diffidenze, ma anche senza che Verdi rinnegasse mai la propria natura. Il musicista ebbe dâaltronde â anche se solo di sfuggita â a riconoscere la superioritĂ del testo francese rispetto alle traduzioni italiane: il modellato del canto, la sua tensione verso il declamato, le sottigliezze della fusione fra prosodia e melodia, fanno delDon Carlosil capolavoro assoluto nel genere delgrand-opĂŠra, genere giunto ormai alla fase del suo fisiologico crepuscolo. Lo stile di Verdi non è mai stato altrettanto âsovranazionaleâ, ed è per questo che lâopera trae ogni profitto dallâesecuzione nella lingua in cui fu composta. Se si osserva con attenzione il libretto originale di Du Locle e MĂŠry, si potrĂ avere immediatamente chiaro come lâadesione a Schiller, e la forza drammatica che scaturisce dalla resa del contrasto politico, vi siano espressi con ben altra penetrazione rispetto alla pur dignitosa traduzione di Lauzières e Zanardini.
Ă un peccato che Verdi abbia sacrificato alcune delle piĂš belle pagine di questâopera per fare uscire i parigini dal teatro una manciata di minuti prima: fra quelle, ad esempio, il coro introduttivo dei boscaioli nella foresta di Fontainebleau portava in orchestra un motivo caratterizzato da unâacciaccatura di semitono che nel corso dellâopera si rivela come una sorta dâidĂŠe fixe, un rovello a cui soggiacciono tutti i caratteri del dramma. In quel rovello, in quellâinstabilitĂ cromatica dellâarmonia, sta la peculiaritĂ stilistica piĂš autentica delDon Carlos, ed è la pura traduzione in termini musicali dellâopprimente atmosfera tratteggiata da Schiller col ricorso alla libera ricostruzione storica di unâepoca fra le piĂš sinistre, quella dellâinquisizione. Quel clima ha indotto alcuni commentatori a parlare di unâinclinazione di Verdi verso la nascente sensibilitĂ del decadentismo, rappresentata con qualche goffaggine in Italia dalla Scapigliatura. In realtĂ , è sufficiente osservare le scelte di Verdi alla luce delle esigenze drammaturgiche per avvertire che il colore tenebroso emaladifdellâopera ben poco ha a che vedere con quel gusto, ed è anzi retto e guidato costantemente dalla forza morale di un artista che, pur nella costante evoluzione del proprio linguaggio, riesce a non tradire mai se stesso.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi