Home Page
Consultazione
Ricerca per categorie
Ricerca opere
Ricerca produzioni
Ricerca allestimenti
Compagnia virtuale
Servizio
Informazioni e FAQ
Condizioni del servizio
Manuale on-line
Assistenza
Abbonamento
Registrazione
Listino dei servizi
Area pagamenti
Situazione contabile


Visualizzazione opere

Didone abbandonata
Dramma per musica in tre atti di Pietro Metastasio
Musica di Niccolò Jommelli 1714-1774
Prima rappresentazione: Roma, Teatro Argentina, 28 gennaio 1747

Personaggi
Vocalità
Araspe
Soprano
Didone
Soprano
Enea
Soprano
Iarba
Tenore
Osmida
Contralto
Selene
Soprano
Note
Rappresentata la prima volta al Teatro Argentina di Roma, l’opera di Jommelli fu ripresa e rielaborata per Vienna (1749) e infine per Stoccarda (1763): il confronto con il testo metastasiano accompagnò quindi le fasi più importanti della carriera del compositore. Compiuta la sua formazione napoletana, è infatti a Roma che Jommelli ottenne le scritture di maggior successo, prima che uno dei suoi patrocinatori, il cardinale Albani, introducesse il musicista nell’ambiente musicale di Vienna, nella stagione 1749-50. In questa occasione Metastasio restò fortemente impressionato dalla versione dellaDidone abbandonata, soprattutto per l’espressività e l’intensità dell’orchestra, e giunse a definire Jommelli «il miglior maestro ch’io conosca per le parole»: in lui aveva trovato «tutta l’armonia del Sassone [Hasse], tutta la grazia tutta l’espressione e tutta la fecondità del Vinci». Giudizi altrettanto lusinghieri riscosse anche la terzaDidonecurata da Jommelli, per la corte di Stoccarda, presso la quale il musicista era stato assunto nel 1753 come maestro di cappella del duca Carlo Eugenio. Nei sedici anni che trascorse nel principato di Württemberg, il compositore si trovò in un ambiente ricco di musica e aperto culturalmente, una sorta di ‘Bayreuth del Settecento’, che intrecciava rapporti con Mannheim, centro di un rinnovato interesse per la musica strumentale. Nello spettacolo rappresentato nel febbraio del 1763, cantarono interpreti di primissimo ordine (Maria Masi Giura come e Giuseppe Aprile come Enea); il coreografo Jean-Georges Noverre, grande innovatore del balletto francese e direttore della compagnia di danza a Stoccarda dal 1760, curò i due balletti inseriti fra gli atti dell’opera e collaborarono, sotto la guida di Jommelli (regista e organizzatore degli spettacoli nel loro complesso), lo scenografo Innocente Colomba, anch’egli di fama internazionale, e il costumista parigino Boquet. LaDidone abbandonataè stata ripresa, in una revisione curata da Giovanni Carli Ballola, al Teatro Rossini di Lugo nel gennaio 1992 (Maria Angeles Peters era Didone); nell’ottobre 1994 è stata incisa, nella versione di Stoccarda, con Frieder Bernius alla guida dell’Orchestra da camera di Stoccarda.

Tre versioni dello stesso libretto: non si tratta di integrazioni fini a se stesse, di rielaborazioni occasionali o di accomodamenti misurati sulle forze delle diverse compagnie di cantanti; piuttosto tre versioni completamente riplasmate, che testimoniano altrettanti approcci alla drammaturgia metastasiana. Come negli altri casi di riscrittura, particolarmente frequenti per Jommelli (scrisse tre versioni diEzioe diFetonte, due diMerope,DemofoonteeAchille in Sciro), viene chiamata in causa la sostanza musicale e drammatica dell’intero lavoro, di volta in volta limato e approfondito. È vero però che l’orizzonte di attesa del pubblico specifico, destinatario dell’opera, influiva in modo determinante nella rielaborazione: tradizioni e esigenze diverse sono le prime responsabili delle modifiche, in un gioco di scarti che investono geografia (le consuetudini diverse delle varie ‘piazze’) e storia (lo stile del momento, che cambia nel giro di una quindicina di anni). Eccone un esempio: all’epoca di Jommelli, a Stoccarda le opere dovevano avere sempre uno o due numeri di insieme, alla fine del primo e secondo atto: non così in Italia, dove al massimo si prevedeva un duetto fra i protagonisti. Nella terza versione della partitura dellaDidonetroviamo quindi un duetto fra Didone ed Enea, alla fine del primo atto (“Non ha ragione, ingratoâ€), il cui testo rielabora quello dell’aria che in Metastasio Didone cantava nella penultima scena dell’atto; inoltre, un terzetto di rara potenza drammatica chiude il secondo atto (“Infedel, ti lascio: addioâ€). Per questo singolare terzetto, il poeta Mattia Verazi, amico di Jommelli e suo collaboratore in numerose occasioni, riscrive le ultime tre scene del secondo atto in versi misurati, con una sintesi sconosciuta al recitativo originale: la situazione drammatica è la stessa, con la partenza di Enea che crede Didone infedele e la accusa, l’alterco fra la regina e Iarba, il quale parte a sua volta minacciando vendetta, e l’ultima sequenza con la regina sola in scena. In Metastasio, ella canta un’aria completa (“Va lusingando Amoreâ€), mentre nella versione di Verazi le ultime parole di Didone, anche se citano l’aria metastasiana (nei versi «Ah tu vieni ancor quest’alma/ dolce Amor, a lusingar»), si saldano al terzetto precedente, che si era ridotto a duetto al momento dell’abbandono di Enea: molto particolare è proprio tale costruzione ‘al contrario’, con i personaggi che lasciano progressivamente la scena durante il numero chiuso, mentre l’intensità drammatica ed emotiva della musica cresce e l’attenzione si concentra sull’unico personaggio che vi rimane. In realtà, parlare di pezzo chiuso o di terzetto, per questa sequenza, può essere fuorviante: la musica procede in un flusso quasi continuo dall’inizio alla fine e il tempo della rappresentazione sembra sempre coincidere con il tempo della storia raccontata, dell’azione bruciata in quell’impossibilità di comunicare che attanaglia i protagonisti. Essi cantano insieme solo una volta, nell’unico momento di sospensione temporale, plausibilissimo a livello drammatico perché esprime la pausa di incertezza che preannuncia l’azione successiva, la quale a sua volta è piuttosto un sottrarsi all’azione e allo scontro (l’allontanarsi di Enea, imitato da Iarba). La sezione statica è quella in cui i personaggi, subito dopo il tentativo di dialogo iniziale, ripetono ciascuno due versi di ‘a parte’, su un crescendo orchestrale che porta all’intreccio di vocalizzi e a una breve stasi, nella quale le voci si fermano sulle ultime sillabe dei versi, intonando le stesse note, come fossero puntini di sospensione. Ma il moto strumentale e il dialogo riprendono, Enea esce di scena ripetendo le sue ultime parole senza melismi, il tessuto orchestrale non si interrompe e continua lo scambio di battute più brevi e incisive, fra Didone e Iarba. All’improvviso un cambiamento ritmico punteggia la spiegazione, richiesta da Iarba e fornita dalla regina, sul perché ella gli sfugga sempre: Didone, esasperata, a questo punto ‘canta’ le sue ragioni a Iarba (“Perché sei pieno d’orgoglioâ€): questi dapprima non riesce a proferire parola e le sue pause drammatiche esprimono la sua impossibilità di reagire, poi risponde a tono, sullo stesso modulo vocale ondulatorio, ed esce. Il silenzio circonda la regina, d’un tratto rimasta sola: frasi spezzate, dapprima imitanti il recitativo accompagnato, e poi solo un po’ più tornite melodicamente, sottolineano il momento d’interrogazione (“Ma, infelice! Che farò?â€) e introducono una sezione più cantabile (“Ah tu vieni ancor quest’almaâ€). È solo una breve illusione: dopo un «Ma...» lasciato in sospeso, l’ultimo verso è siglato con una chiusa asciutta e concisa, senza indugi vocali o melismi, sulla ripresa del vivace moto orchestrale.

L’orchestra di corte, di grande prestigio, ha stimolato il compositore ad approfondire i caratteri a lui più congeniali: l’intensa strumentazione delle arie (in cui spesso i fiati sono utilizzati come solisti, oppure integrati nella compagine dagli ottoni) e l’abbondanza dei recitativi accompagnati. Questi, nelle opere dei contemporanei, sono i momenti in cui l’orchestra d’archi sostiene e commenta il recitativo nelle situazioni di maggior drammaticità, segnando rare eccezioni alla regola del recitativo secco. Con Jommelli invece essi tendono a moltiplicarsi, si intercalano e fondono ai recitativi secchi, e attenuano il consueto divario fra recitativi sobriamente accompagnati e arie riccamente orchestrate. Spesso Jommelli fa iniziare l’aria senza ritornello introduttivo (il ritornello che favorisce di solito il passaggio alla dimensione di atemporalità tipica del pezzo chiuso) e dalla declamazione accompagnata dagli interventi orchestrali fa spiccare il canto vero e proprio; oppure costruisce con interventi orchestrali anche le scene d’azione, non solo i monologhi introspettivi più importanti. La passionalità dell’intonazione del testo è accentuata da questi accorgimenti, ai quali si unisce l’impiego frequente della tecnica del crecendo orchestrale, o dei contrasti dinamici accentuati e vigorosi: non solo nella sinfonia e nelle arie (fra le quali quelle di Iarba, “Son qual fiume, che gonfio d’umori†e “Cadrà fra poco in cenere†– tutta giocata sull’accompagnamento febbrile degli archi, che si rincorrono incessantemente in figurazioni che alludono all’incendio minacciato dal re, mentre la voce di stile sillabico affronta nervosi sbalzi di registro –, e la cavatina di Didone “Va crescendoâ€), ma anche nel drammatico finale, dopo l’ultimo declamato della regina, che «corre (...) a precipitarsi disperata e furiosa» nel suo palazzo in fiamme. Molte arie sono concertate con i fiati in funzione di solisti: ad esempio, corni e oboi si intrecciano alla voce di Enea in “A trionfar mi chiamaâ€, lungotour de forcevirtuosistico in cui dovette brillare il castrato pugliese Giuseppe Aprile, lodato da Mozart e da Charles Burney, specializzatosi nelle opere di Jommelli a partire dal suo debutto napoletano (in una parte secondaria dell’Ifigenia in Aulide).
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi


Credits - Condizioni del servizio - Privacy - Press Room - Pubblicità