Pomo d’oro, Il
Festa teatrale in un prologo e cinque atti di Francesco Sbarra
Musica di Antonio Cesti 1623-1669
Prima rappresentazione: Vienna, Teatro di corte, 12 e 14 luglio 1668. Prologo: la Gloria austriaca (S), Amore (S), Himeneo (

Personaggi
Vocalità
Adrasto
Contralto
Aglaie
Soprano
Alceste
Contralto
Aletto
Soprano
Apollo
Contralto
Aurindo
Contralto
Austro
Bacco
Basso
Caronte
Basso
Cecrope
Basso
Ennone
Soprano
Eolo
Basso
Eufrosine
Soprano
Euro
Tenore
Filaura
Tenore
Ganimende
Contralto
Giove
Basso
Giunone
Soprano
Hebe
Soprano
la Discordia
Soprano
l’elemento del Foco
Contralto
Marte
Tenore
Megera
Contralto
Mercurio
Contralto
Momo
Basso
Nettuno
Basso
Pallade
Soprano
Paride
Tenore
Pasithea
Contralto
Plutone
Basso
Proserpina
Soprano
Tesifone
Soprano
un sacerdote
Basso
un soldato
Tenore
Venere
Soprano
Volturno
Zeffiro
Soprano
Note
Prima di terminare la sua breve vita, per altro tanto produttiva quanto avventurosa, Cesti scrive la musica per la più straordinaria opera del secolo,Il pomo d’oro. Straordinaria per ampiezza (cinque atti allestiti in due giornate successive) e per impiego di mezzi: quasi cinquanta cantanti, cori e comparse a non finire (con leoni ed elefanti), balli e armeggiamenti, e ben 26 cambi di scena per la cui complessità fu necessario costruire un teatro apposito. L’eccezionale apparato è ovviamente frutto di una produzione di corte (i teatri pubblici non avrebbero mai potuto sostenere simili spese), ma anche in quest’ambito l’operazione va oltre le aspettative. Siamo nella Vienna di Leopoldo I, sovrano che, oltre a essere compositore egli stesso, si rivela assai sensibile all’aspetto cerimoniale e propagandistico della sua politica imperiale. In occasione del suo secondo matrimonio con la principessa Margherita, infanta di Spagna, Leopoldo mette in moto un apparato di festeggiamenti e celebazioni che dureranno quasi due anni. Cesti, con la collaborazione del librettista di corte Francesco Sbarra, scriverà per l’occasione anche due introduzioni ai balletti di Johann Heinrich Schmelzer (Nettuno e Flora festeggiantinel luglio del 1666, eLa Germania esultanteper il genetliaco della sposa dell’anno successivo) eLe disgrazie d’Amore(febbraio 1667). Sbarra preparerà poi i testi di altri lavori messi in musica da Antonio Bertali e da Pietro Andrea Ziani. Anche perIl pomo d’oroil libretto è di Sbarra e se l’opera è conclusa con l’inizio del 1667, non così è per il teatro destinato a ospitarla. Nell’attesa va in scena un vecchio lavoro di Cesti, ?Semirami, scritta nel 1665, ma fino a quel momento non ancora allestita. Finalmente il secondo compleanno di Margherita imperatrice vede i trionfi dell’attesissima festa.Il pomo d’orospicca soprattutto per la magnificenza delle scene di Ludovico Burnacini (riprodotte nel libretto) – impressionante la sesta del secondo atto, dove la città di Dite in fiamme è circondata dalle acque su cui naviga la barca di Caronte, il tutto contenuto nella gola di un enorme mostro infernale con le fauci spalancate grandi quanto il boccascena (fauci che poi, incredibilmente, si richiuderanno); e altrettanto stupefacente la Via Lattea (IV,6) in cui compare la Sfera del Fuoco con Venere trionfante (da fare invidia alla più stravagante fra le regine della notte); così il crollo a vista dell’enorme torre che contiene il pomo d’oro (in fine d’opera), e in generale tutto il quarto atto, con ben otto mutazioni, stupisce per macchine e azzardi scenografici (per non parlare degli apparati di città celesti pronti a splendere fra le nuvole a ogni divina apparizione). La storia raccontata da Sbarra, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, si distingue per linearità e coerenza. Le vicende secondarie di cui sarebbe affastellato l’enorme libretto (come s’è detto spesso) sono assai meno secondarie e certamente meno pretestuose di moltissime altre opere seicentesche. Anzi si può dire che la storia sia una sola, quella scatenata dal pomo della discordia. In breve: l’opera si apre con il noto episodio della mela destinata «alla più bella» – la Discordia che la getta ai piedi delle tre matriarche del cielo (Pallade, Giunone e Venere), le gelosie di queste, l’intervento di Giove, l’elezione di Paride a giudice supremo, e la consegna del pomo a Venere (che ha corrotto Paride offrendogli l’amore di Elena, la più bella della terra) – e tutto è raccontato con arguzia e divertimento nel primo atto (irresistibile il terzetto ‘di gelosia’, che tanto ricorda il clima dellaBelle Hélènedi Offenbach). Il seguito racconta di Paride che lascia Ennone per Elena, di Ennone che prima si dispera e poi si consola con il bel pastorello Aurindo, delle reciproche vendette di Pallade (che assolda Marte) e Giunone (aiutata da Nettuno), di Venere che difende Paride dalla furia delle due e di Giove che, stanco di tanto trambusto, si riprende il pomo e lo dona alla celebrata imperatrice Margherita (i cui trionfi, suoi e del marito, erano già stati preannunciati nel prologo delle nazioni). Sbarra, come sempre, offre un libretto dalla versificazione semplice, snella, scherzosa, ricca di rime attente al metro e alla destinazione musicale, ma al contempo ironico, intelligente, arguto, spesso malizioso e disincantato – per esempio con un Momo al limite dell’eresia: «il viver nostro è giusto una commedia (...). Ma doppo l’ultim’atto in van s’attende De l’humana vicenda Altra nuova apparenza, Per che quando la favola è finita Restano spenti i lumi De la speme non men che della vita». Cesti non trasforma sempre tanta abbondanza di rime in altrettante arie e ariette: spesso per amor di varietà riduce strofe dal metro regolarissimo in più liberi recitativi. Per la sua immensità e unicità il lavoro poco si presta a identificare il teatro d’opera seicentesco (in genere più contenuto e assai meno costoso, malgrado le esuberanze del secolo), ma qualesummad’ogni possibile soluzione musicale (alla cui stesura ha contribuito lo stesso Leopoldo) offre una panoramica quasi completa delle forme dell’opera italiana coeva: presenti i tipi più diversi di aria, arioso, recitativo, e poi infinite le ariette, i lamenti, i duetti, terzetti, quartetti, cori con o senza soli, scene pastorali, infernali, comiche, amorose, trionfali, sinfonie, balli, tempeste e quant’altro – fra cui un’arditezza di colorature per Pallade (“Non più pugne giocose”, II,14) che tanto ricorda le successive arie ‘di furore’. L’orchestra a cinque parti prevede l’utilizzo di tutti gli strumenti solitamente usati nelle opere di corte (di cui l’Orfeomonteverdiano è modello): trombe, tromboni, cornetti, fagotti, viole da gamba, un regale e un graviorgano, sono esplicitamente indicati; e possiamo facilmente immaginare un continuo particolarmente ricco di liuti, tiorbe, cembali, chitarroni, ma anche arpe, mandole e percussioni. La partitura ci è pervenuta quasi integralmente: per gli atti terzo e quarto dobbiamo però accontentarci solo di alcune arie (nove per atto sopravvissute).
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi