Paride ed Elena
Dramma per musica in cinque atti di Ranieri de’ Calzabigi, dalle Heroides di Ovidio
Musica di Christoph Willibald Gluck 1714-1787
Prima rappresentazione: Vienna, Burgtheater, 3 novembre 1770

Personaggi
Vocalità
Amore
Soprano
Elena
Soprano
Pallade
Soprano
Paride
Soprano
un troiano
Soprano
Note
Malgrado il successo diAlcestenel 1767, la fortuna di Gluck a Vienna non pare, verso la fine del decennio 1760-70, del tutto incontrastata. Segni di un disagio evidente di fronte agli attacchi di avversari e detrattori si possono cogliere nella prefazione dell’autore alla partitura della sua opera successiva,Paride ed Elena(una prefazione non meno importante di quella diAlcestedal punto di vista teorico). Oltre alle incomprensioni provenienti dai difensori dell’opera seria tradizionale, Gluck comincia a patire a quell’epoca anche la presenza sempre più preponderante dell’opera buffa nei teatri di corte viennesi. Terzo e ultimo frutto della collaborazione con Calzabigi,Paride ed Elenariceve alla fine del 1770 un’accoglienza tiepida e non viene più ripresa in seguito. Nel proprio dramma Calzabigi si allontana dai grandi temi tragici e soprannaturali trattati inOrfeo ed Euridicee inAlcestee ripiega sul versante amoroso. La vicenda, esilissima, prende avvio dallo sbarco di Paride e del suo seguito nel Peloponneso e riguarda la varie fasi del corteggiamento di Elena, fino alla vittoria dell’amore, invano contrastata dall’apparizione di Pallade a predire i danni della guerra di Troia. La riduzione di Elena da moglie a semplice fidanzata di Menelao (sempre comunque regina di Sparta) toglie alla fuga finale dei due amanti un carattere di adulterio inaccettabile per la censura di Maria Teresa. La donna greca fa comunque appello alla propria virtù per buona parte del dramma, rifiutando sdegnosamente le profferte di Paride, e solo a metà del quarto e penultimo atto dà segni di cedimento. L’assenza di eventi notevoli lascia campo libero a episodi decorativi, con cori e danze, di chiaro gusto francese (francese è del resto il taglio in cinque atti). Si hanno così granditableaux, quali lo sbarco dei troiani con il sacrificio a Venere sotto un pergolato di rose (atto primo) e giochi ginnici nel palazzo di Elena (atto terzo): qui al coro e al ballo decorativo si aggiunge un episodio pantomimico sul brano strumentale chiamato in partitura «aria per i [sic] atleti». Le schermaglie amorose e le trame ordite dal personaggio di Amore (presente nell’intreccio sotto false spoglie) fanno spesso inclinare la vicenda verso la commedia, con conseguente ricorso nella musica ai modi stilistici dell’opera comica (italiana e francese, quest’ultima assai famigliare a Gluck). Privato di situazioni sceniche propizie ai forti contrasti chiaroscurali, il musicista deve cercarsi da sé un diversivo e nella prefazione dichiara di aver trovato «qualche varietà di colori» contrapponedo il carattere «ruvido e selvaggio» degli spartani a quello «delicato e molle» dei troiani. Così il canto di Elena concede pochissimo alla seduzione melodica, restando per lo più entro i confini del declamato, mentre quello di Paride, tagliato su misura per un grande castrato come Giuseppe Millico, indulge a melismi e fioriture e risulta in generale assai più ricco dimelos. La bipolarità Grecia-Asia si riflette anche sugli episodi corali: le squisitezze rococò del primo atto (i rituali in onore di Venere celebrati dai troiani) hanno infatti il loro contraltare nei cori degli spartani, dove la volontà gluckiana di rendere la «verità» anche a costo di «abbassarsi qualche volta fino al triviale» (lo si legge sempre nella prefazione) dà vita a uno stile spigoloso, tutto salti e quinte vuote, nel quale la nudità degli unisoni si alterna a concatenazioni armoniche dure e inusuali. Per quanto gli è consentito dalla staticità dell’intreccio, Gluck cerca di dare ai due protagonisti (e soprattutto a Paride, la cui parte è di gran lunga preponderante) una fisionomia sfaccettata. I rari momenti di tensione, quando il rifiuto della donna si fa più aspro e poi quando in lei si fa strada il turbamento, coincidono con accesi recitativi sostenuti da tremoli orchestrali. Nel duetto alla fine del terzo atto lo sgomento di Paride è reso mediante la stessa declamazione scolpita e martellante che esprimeva inOrfeola delusione di Euridice dopo la sortita dall’Ade. L’ebbrezza dei sensi, già rivelatasi nella ‘canzone’ di Paride con arpa obbligata a metà del terzo atto (“Quegli occhi belli”) si dispiega trionfalmente nei vocalizzi ‘a due’ del finale. Ma è soprattutto l’assenza dell’oggetto amoroso a dettare le pagine musicalmente più pregnanti della partitura. La prima aria di Paride (e brano più noto dell’opera, perché rimasto stabilmente nel repertorio concertistico, “O del mio dolce ardor”), risolve l’idea arcadica delle ‘aure’ spiranti in afflato panico e rende con grande trasporto l’idea dell’attrazione fatale per una donna ancora non conosciuta. Un analogo sentimento della natura anima poco dopo, ben oltre l’Arcadia convenzionale dei versi, l’aria “Spiagge amate”, con corno obbligato. L’abbattimento del protagonista di fronte ai rifiuti dell’amata (“Le belle immagini”) trova sfogo in una melodia di sapore liederistico, in fa minore, riecheggiante le più malinconiche confessioni cembalistiche di Carl-Philipp Emanuel Bach.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi