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Teufels Lustschloß, Des
(Il castello del diavolo) Zauberoper in tre atti di August Friedrich Ferdinand von Kotzebue
Musica di Franz Schubert 1797-1828
Prima rappresentazione: Potsdam, Hans-Otto Theater, 17 marzo 1978

Personaggi
Vocalità
contadino
Basso
contadino
Tenore
domestico (2)
Tenore
il conte di Schwarzburg
Recitante
Luitgarde
Soprano
l’albergatrice di una locanda di campagna
Soprano
Oswald
Tenore
Robert
Basso
statua (2)
Tenore
statua (2)
Basso
un vecchio schiavo
Basso
una amazzone
Soprano
uno scudiero
Tenore
Note
Quando si accinse a questo primo approccio operistico, ossia nell’ottobre 1813, Schubert non aveva ancora diciassette anni e studiava con Antonio Salieri; Des Teufels Lustschloß conobbe due redazioni proprio perché il giovanissimo compositore sottopose la partitura al giudizio del maestro, accogliendone i consigli in una seconda versione, quella a cui qui si fa riferimento. La scelta del libretto cadde su un autore tra i più popolari all’epoca, quel Kotzebue che sfornava infallibilmente ‘drammoni’ di successo, riciclando in svariate salse la vetusta e sempre valida ricetta a base di colpi di scena spettacolari. Non si può imputare alla giovane età la malaugurata scelta di un testo tanto scadente, visto che anche le opere successive non attinsero mai a soggetti di rango letterario superiore; piuttosto, va sottolineato come Schubert riproponesse un libretto già più volte musicato, fra gli altri da un accolito di Goethe come Johann Friedrich Reichardt, che già l’aveva portato sulle scene (Das Zauberschloß, Berlino 1802). La trama ripropone i luoghi comuni del ‘pasticcio’ melodrammatico di inizio Ottocento, allineando una serie di inenarrabili peripezie che vengono ambientate fra radure brulle, paesaggi rocciosi, templi antichi e illacrimate sepolture, senza naturalmente rinunciare al sauvetage conclusivo. Sarebbe inutile ripercorrere tutti gli incidenti che capitano al cavaliere Oswald, reo di aver sposato Luitgarde contro la volontà del padre di lei, conte di Schwarzburg; incalzato da un’implacabile amazzone, che oltre a combatterlo tenta anche di sedurlo, costretto a pugnare con statue semoventi, condannato infine a morte e salvato apparentemente in extremis, Oswald scopre che tutte le traversie occorsegli altro non erano che un espediente escogitato dal terribile suocero per mettere alla prova il suo valore e il suo affetto per Luitgarde.

Fra la prima e la seconda versione dell’opera intercorse un evento fondamentale: la rappresentazione, avvenuta il 23 maggio 1814, del Fidelio di Beethoven. Il lavoro di revisione di Schubert ne rimase influenzato, intrecciando con scoperti riferimenti (il più evidente è, nell’ultima scena, il ricongiungimento della coppia di sposi) il magistero beethoveniano a quello, già precedentemente assimilato, del teatro di Mozart. A questo proposito, il momento in cui Oswald cade nel precipizio (II,2) è nitidamente ricalcato sul finale del Don Giovanni, addirittura mantendendosi fedele al particolare del servitore che assiste alla catastrofe. Nelle arie dei due protagonisti Schubert tenta la ‘maniera grande’, scrivendo due pagine di stampo cherubiniano che non solo testimoniano l’ascendente dell’insegnamento di Salieri, ma tradiscono già il desiderio di cimentarsi con l’opera romantica eroico-tragica e da lì salpare per i lidi della notorietà, che gli avrebbero consentito di eludere la triste prospettiva del reclutamento forzato nell’albo dei maestri di scuola.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi


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